Il Nuovo Mondo: una nuova educazione per generare esseri inter-dipendenti

IL NUOVO MONDO

Informazioni per lo sviluppo di una Nuova Educazione per genitori, insegnanti, bambini e ragazzi, fondata su Relazioni Autentiche e Rispettose, sul Benessere e sullo Sviluppo dell’Attitudine Creativa.

A cura di Abheeru Roberto Berruti

Amore Condizionato

Di Mauro Scardovelli

(amico e collega di grande qualità professionale)

Se un padre vede il figlio come un suo prolungamento, se desidera ardentemente che nella vita realizzi certi traguardi, ottenga determinati risultati, occupi una certa posizione, si può dire che ami suo figlio? Se si sacrifica per lui, se fa in modo che abbia più del necessario, se lo protegge da ogni sofferenza? Se lo guida passo a passo nelle scelte che compie, in modo che corrispondano alle sue aspettative? In modo che suo figlio impari ad assecondare il tipo di esistenza che ha sognato per lui? E’ questo che si intende per amore?

Un figlio che vive un tale rapporto con il padre, può dirsi libero? Libero di esplorare, di cercare la sua strada, di sbagliare, pagarne il prezzo, cercare ancora?

Chi, dosando attenzione, affetto, cura, condiziona un’altra persona, la ama davvero?

Che cosa è il condizionamento, se non l’utilizzo della paura per privare altri della libertà di scegliere, di rischiare? della libertà di conoscere autonomamente, in primo luogo se stesso, i propri talenti, aspirazioni, sentimenti, bisogni?

E’ compatibile l’amore con il condizionamento?

E’ compatibile l’amore con la paura, con la privazione della libertà di conoscere e di conoscersi?

Se si riflette su tali domande, si comprende che l’amore condizionato è un’ossimoro, cioè una contraddizione in termini. Dove c’è condizionamento, dove c’è privazione o riduzione di libertà, non ci può essere amore. La parola corretta, il proper name, non è amore, ma possesso.

Eppure è attraverso questo tipo di non amore che molti genitori credono di educare i figli. E’ questa educazione? O non è piuttosto una forma di condizionamento diretto a stimolare paura, sottomissione e adattamento?

La famiglia è la cinghia di trasmissione della società. La società, qualsiasi società, pone dei limiti alla libertà di pensare, di credere, di formarsi libere opinioni. E in tal modo forgia le menti dei suoi appartenenti mediante l’interiorizzazione di schemi mentali, schemi percettivi, schemi di pensiero, che passano inosservati, in quanto condivisi da tutti. Diventano come l’aria che respiriamo.

Questi schemi sono come gabbie di una prigione di cui avvertiamo il peso, senza più riuscire a vederne le sbarre.

Secondo Krishnamurti, l’educazione, la vera educazione, dovrebbe svolgere una funzione del tutto diversa, direi opposta: rendere libere le persone dai condizionamenti sociali. Come? Imparando a vederli, a riconoscerli per quelli che sono: fardelli imposti alla nostra libertà di pensiero. Perduta la libertà di pensare, perdiamo anche la capacità di amare. E qui inizia la sofferenza, in quanto siamo fatti per amare. Amare è una funzione che ci accomuna, come camminare, mangiare o dormire.

Essere educati alla società comporta quindi un prezzo spesso molto elevato.

Freud aveva intuito questa verità (v. Il disagio della civiltà).  Ma solo parzialmente, in quanto aveva considerato questo disagio necessario e inevitabile.

Krishnamurti concorda con Freud su un punto: finché non ci risvegliamo dall’ipnosi del condizionamento, viviamo in una sorta di prigione. I nostri tentativi di ribellione sono solo diretti a spostarci da una parte all’altra della stessa prigione. Ma Krishnamurti non ritiene questa condizione insuperabile. Al contrario, ritiene che il suo superamento sia l’essenza stessa dell’educazione, quella vera, non quella diretta ad ammaestrarci e a sottometterci. Su questo punto la distanza tra Krishnamurti e Freud non potrebbe essere più grande.

Quando riceviamo amore condizionato, impariamo ad amarci in modo condizionato: posso volermi bene, posso stimarmi, apprezzarmi, SOLO SE SODDISFO CERTE CONDIZIONI (vedi file amore e giudizio):

essere gentile e affidabile
essere generoso
essere capace e competente
essere ineccepibile
essere prestante
essere forte

ecc.

Le condizioni di amabilità, o condizioni di valore, diventano condizioni di felicità. Non posso essere felice, non posso essere amato, non ho valore se… Una volta interiorizzato questo schema, la libertà cessa di esistere. E con essa la capacità di conoscere e amare sé e gli altri.

APPROFONDIMENTO

Chi in famiglia, anche solo da uno dei genitori, riceve amore condizionato, impara a non amarsi o ad amarsi solo se soddisfa certe condizioni (non commettere errori, non creare fastidi, primeggiare, ecc.). Impara quindi a vivere in una situazione di stress o paura, che toglie la libertà e assorbe una parte più o meno grande di energia vitale, o energia creativa. 

E’ come un alpinista che si carica sulle spalle un sacco pieno di pietre. Anche un passaggio relativamente semplice diventa difficile o impossibile.

Come se non bastasse, l’alpinista si porta dietro anche un compagno che lo critica o lo insulta ogni volta che tentenna o rallenta. Questo compagno di cordata è il giudice interno, al quale l’alpinista si affida per valutare le sue performance!

Mettiamoci nei panni delle cellule, dei tessuti, degli organi interni di quest’uomo o donna. Come si sentiranno? Avranno fiducia nella politica di governo che le guida? Saranno disposti a collaborare, o cercheranno di cambiare la situazione, di far aprire gli occhi all’io-governo, in modo che cambi politica?

E se il governo continua ad essere sordo alle loro sane richieste, non accadrà che cellule, tessuti, organi, prima o poi inizino uno sciopero parziale o generale, o comincino a danneggiare le infrastrutture, o ad opporsi in modi più o meno violenti? E come risponderà il governo se è così ipnotizzato da non riuscire a vedere l’ovvio? Probabilmente chiamerà malattia, debolezza, handicap, quello che invece è espressione autentica delle forze più intelligenti e libere del suo paese.  

E se il governo continuerà così per tanti anni, quale destino lo attende?

Un governo di questo tipo, probabilmente, passerà buona parte del tempo a cercare di risolvere quelli che lui definisce problemi. Ma in che modo cerca di risolverli? Continuando a fare ancora di più quello che già stava facendo: mettendo ulteriori pietre nello zaino e continuando a dare ascolto alle critiche e ai giudizi del suo tribunale interiore, che si fanno sempre più pesanti.

E di fronte a questi crescenti restrizioni e inasprimenti fiscali, come reagirà la popolazione delle cellule, organi e tessuti?

Con le migliori intenzioni – risolvere i problemi –, l’io-governo ha innescato quello che i cibernetici e gli informatici chiamano loop: un LOOP DISTRUTTIVO. Un loop che giorno dopo giorno rende più profonda l’ipnosi nella quale è sprofondato.

Schematicamente, si danno diverse varianti dell’auto-condizionamento iniziale, che dà origine a tutto il processo (ho scritto “auto-condizionamento” perché la sua forma dipende da una scelta, da una decisione personale. Decisione che viene presa quando il bambino ha pochi anni di vita):

1.Sono amabile e posso essere felice solo finché continuo a soddisfare certe condizioni
2. Non sono amabile e non posso essere felice finché non riesco a soddisfare certe condizioni

3. Non sono amabile e non posso essere felice poiché non sarò mai in grado di soddisfare certe condizioni

L’alpinista ha il sacco leggero, senza pietre, solo se è libero da ogni forma di condizionamento. Solo allora dispone di tutta la sua forza e intelligenza.

Passando dal condizionamento 1 a quello 3, il sacco si fa sempre più pesante e la mente dell’alpinista più ottusa. E può diventare così pesante da convincere l’alpinista che non riuscirà mai ad arrivare in cima. L’unico modo per scendere dalla parete è quello di annullarsi, sparire.

Una delle pietre più pesanti che si possono mettere nel sacco è quella di credere che, per essere degni d’amore, bisogna continuare a soffrire. Infatti, posso credere che, se nella mia famiglia c’è tanto dolore, e io me ne libero e vivo bene, io sto abbandonando i miei famigliari, li lascio da soli nella loro sofferenza. E questo non posso farlo, sarebbe crudele, malvagio. Solo soffrendo anch’io dimostro il mio amore per loro. Soffro, quindi amo.

Una tale visione è spesso alla base del corpo di dolore di tante persone. Finché tale visione viene mantenuta, non c’è formazione o terapia che possa liberarle.

Gregory Bateson direbbe che tali persone sono imprigionate in un doppio legame, cioè sono esposte a due ingiunzioni contraddittorie. Se soddisfi una, violi l’altra. L’unica soluzione sarebbe abbandonare il campo. Ma non puoi farlo, pena la tua sopravvivenza.

In sintesi:

  • per essere felice devo amare i miei genitori, così sarò amato, sicuro, protetto
  • per amare i miei genitori, se soffrono, devo stare con loro e condividere la loro sofferenza, quindi per me amare = soffrire / star bene = non amare = soffrire

Come si esce da questo doppio legame? Comprendendo che nelle due ingiunzioni si mischiano due differenti livelli: anima ed Ego, grande mente e piccola mente.

L’ingiunzione di amare viene dall’anima, di genitori e figli. L’ingiunzione di soffrire viene dal loro Ego o piccola mente.

Nella distorta visione dell’Ego, la sofferenza è una prova d’amore: soffri per me, così saprò che mi ami; io soffro per te, perché ti amo. Ma questo NON è amore, è possesso.

L’anima, di fronte alla sofferenza del proprio Ego o dell’Ego degli altri, prova compassione, non sofferenza. E la compassione può nascere solo se si coglie la realtà nel suo insieme, cioè se si è nella grande mente.

La piccola mente si concentra su un aspetto per volta: la sua è una visione a tunnel, che impedisce di vedere l’insieme.

Nella piccola mente non c’è soluzione al dolore: può solo crescere e indurirsi. Nella grande mente c’è spazio per tutto, anche per il dolore, che nel grande spazio trova il suo posto naturale, come un cavallo imbizzarrito in una grande prateria. La prateria rimane tranquilla, e il cavallo dopo un po’ si mette a brucare.

CONVERSAZIONE SUL TEMA

Perché è così difficile liberarsi dalle pietre? Una volta che si sono viste, perché non le si butta?

Perché quelle pietre le abbiamo messe nel sacco quando eravamo piccoli, credendo che ci salvassero la vita. Buttarle, a livello inconscio, significherebbe morire o rimanere soli e abbandonati.

Ma adesso sappiamo che non è così!

Lo sa la nostra parte adulta, non il bambino che vive ancora dentro di noi. Per convincere quel bambino a mollare le pietre, occorre dargli adesso ciò di cui lui ha sempre avuto bisogno.

Che cosa?

Amore incondizionato.

E come possiamo dare questo amore?

Non dando più credito a ciò che dice il giudice interno, che è un elemento portante della struttura del condizionamento. Chi continua ad ascoltarlo, dimostra al bambino interiore che anche da adulto è ancora condizionato, spaventato, confuso.

Un adulto così non è minimamente affidabile. Non può fungere da guida al bambino.

Quindi è l’adulto, è l’io-governo che deve cambiare per primo?

Si.

Come?

Ponendo fine al racket che tiene in piedi tutta la struttura. Racket significa rifiuto di assumere la responsabilità, scaricandola su altri. Per altri intendo non solo altre persone, ma anche altre parti di sé, le proprie sensazioni, il proprio carattere. Lamentele, pretese, accuse, sono le più comuni manifestazioni di racket. Sono forme di mistificazione che servono a giustificare la politica disfunzionale del governo.

Stai dicendo che il racket è assai diffuso?

Occupa tutti gli spazi disponibili. E coloro che lo praticano, anche se in conflitto su tutto, sono d’accordo almeno su una cosa: sul non confrontarsi, sul non aprire gli occhi sulla loro mancanza di responsabilità.

Solo una persona libera da condizionamenti è privo di paura, e può parlare liberamente. Tutti gli altri temono le ritorsioni, che puntualmente arriveranno ogni volta che utilizzano parole vere.

In un mondo dove domina l’ombra, la manipolazione, la falsità, chi si dedica alla verità diventa un nemico da cui difendersi.

Sono affermazioni un po’ pesanti!

La cronaca politica fornisce ogni giorno prove convincenti sulla loro correttezza. E non parlo solo della politica nazionale o internazionale; parlo della politica delle famiglie e dei gruppi, compresi quelli che si ispirano alla c.d. cultura benevola. All’interno di questi gruppi, se si ha occhi per vedere al di sotto della superficie, si assiste a continue lotte di potere, non diverse nella struttura da quelle tanto criticate della politica nazionale.

E ancora prima, mi riferisco alla politica personale, o politica interna alla mente individuale. L’ombra, scoperta da Freud e da Jung, è la prova definitiva, scientificamente attendibile, che frammentazione, lotta di potere, giudizio, colpa, punizione, abitano al nostro interno. Buona parte delle nostre energie le impieghiamo per negare questi aspetti, proiettandoli sugli altri e sul mondo esterno.

In questo modo non ce ne libereremo mai?

Ciò che neghiamo in noi stessi ci viene continuamente riflesso dalla realtà. La realtà ci fa da specchio. Se solo usciamo dall’ipnosi, se solo vediamo non una di queste cose, separata dalle altre, ma impariamo a vederle tutte insieme, – la politica interiore, la politica familiare, quella dei gruppi e delle nazioni –, allora ciò che vediamo ci avvicina alla verità. E se vediamo ciò che è vero, la paura sparisce.

Perché?

Perché comprendiamo che è frutto di una colossale illusione, alla quale tutti partecipiamo e attivamente sosteniamo, condividendo la stessa danza, gli stessi virus del pensiero, gli stessi racket.

Allora ci rendiamo conto che non esiste qualcosa come la “mia” paura, la “mia” rabbia, il “mio” dolore, il “mio” carattere, la “mia” ombra, la “mia” disonestà, la “mia” debolezza. Esistono solo la paura, la rabbia, la sofferenza. Ogni volta che utilizziamo l’aggettivo possessivo, stiamo implicitamente confermando e rafforzando l’illusione di separatività, che è all’origine di ogni sofferenza.

Così come esistono i virus informatici, che possono mettere in crisi un computer, così esistono i virus del pensiero. Non siamo noi a produrli. Vengono da fuori. Noi li lasciamo solo entrare.

Ciò di cui abbiamo bisogno non è buttare il computer, ma liberarlo e proteggerlo dai virus.

La Vision di Abheeru sulla Dipendenza

LA MIA VISION SULLA DIPENDENZA

1. Perché decidere di affrontare le forme di dipendenza.
L’esercizio di sciogliere le forme di dipendenza nelle quali accade di trovarsi compulsivamente implosi è un’opera di evoluzione che viene chiesta a ognuno di noi dal malessere che le stesse dipendenze ci causano. Stare male non significa dover continuare a stare male: il malessere della dipendenza, così come ogni altro malessere che ci accade, non è altro che l’urlo dell’anima che richiede la nostra attenzione: ci chiede di fermarci e di ritrovare la strada del ben-essere.

Nessuno escluso, arriva a un certo punto della vita un passaggio nel quale devi affrontare, elaborare e sciogliere almeno una forma di dipendenza.
Perché affermo che nessuno è escluso? Perché la dipendenza è un corto circuito mentale figlio dell’Ego, o Falsa Personalità; fino a che non prendiamo coscienza di vivere comandati da un Ego spaventato, difensivo/aggressivo e orgoglioso, siamo costretti a subire passivamente qualche forma di dipendenza.  

È d’uopo a questo riguardo considerare l’inizio curioso e paradossale di questa di vita: arriviamo su questo pianeta come creature totalmente libere nella propria espressione e manifestazione: pienamente interconnesse al tutto sul piano sensoriale e relazionale, in un pieno senso di appartenenza; creature liberamente inter-dipendenti.
Al tempo stesso in quell’inizio siamo totalmente dipendenti per la nostra sopravvivenza e incolumità.

Siccome per i codici dell’esistenza la cosa prioritaria è di farti passare incolume la fase in cui non sai e non puoi curarti di te da solo, all’inizio della nostra vita i cervelli preposti a tutelare sopravvivenza e territorialità materiale e psichico/nervosa (Rettile e Limbico) sono potentemente attivi a pieno regime; mentre la neo corteccia frontale, il cervello preposto (tra le sue varie funzioni) al rifletterci la nostra identità, è appena abbozzato e comincia a svilupparsi dopo la nascita, nell’interazione con le figure di attaccamento e con l’ambiente in cui cresciamo.

Lo sviluppo della neo corteccia frontale viene quindi potentemente condizionato dalle conseguenze dell’attività di sopravvivenza e adattamento dei due cervelli protettivi: quando i cervelli protettivi intervengono per proteggere da un reale o presunto pericolo (ricordiamo che per un neonato un semplice calo di energie, che lo porta nella fase nervosa ortosimpatica, appare come una pericolosa caduta nel vuoto), l’attività di ramificazione neuronale della neocorteccia rispetto alla situazione vissuta entra in pausa; riprende a ramificare solo dopo l’elaborazione limbica.

Ogni volta che questo accade è il cervello Limbico a fornire l’input di elaborazione ai due emisferi della neocorteccia: l’input che fornisce riguarda come l’ambiente esterno, a cui il neonato è vincolato, ha risposto o reagito all’urgenza del bambino.

Facciamo un esempio.

Se l’ambiente esterno ha risposto in modo rassicurante, il Limbico dà l’ok alla situazione e smette di suonare l’allarme nel sistema nervoso; manda alla neocorteccia un input di situazione accettabile, sul quale la neocorteccia del bambino può riprendere a ramificare le sue conclusioni accettabili sull’accaduto.

Se invece l’ambiente esterno non ha risposto in modo rassicurante, ma reattivo o aggressivo/punitivo, il Limbico rimuove dalla coscienza la memoria sgradevole della situazione vissuta e rimane l’allarme nel sistema nervoso: in questo caso l’input inviato alla neocorteccia è di minaccia/pericolo, associata all’emotività reattiva con cui l’esterno ha reagito e abbinata al senso di impotenza del piccolo; la neocorteccia può così solo fissare una conclusione non accettabile sull’accaduto.

Ciò che vale per entrambi i casi esposti come esempio, è che la ramificazione della neocorteccia sull’esito dell’evento pericoloso diventerà un tassello della propria identità.

Accade così che in ogni essere umano si costituisca una prima identità di Sé fondata prevalentemente su informazioni dettate dai cervelli di sopravvivenza: loro hanno gestito la relazione con l’ambiente esterno; loro hanno valutato quanto esso fosse sicuro o meno; loro hanno confuso l’amore con le condizioni; loro hanno registrato traumi e mancanze e li hanno coperti con strategie di alienazione; e infine sempre loro hanno accentrato ogni evento sulla piccola creatura: “Se è accaduto qualcosa che mi fa male è per colpa mia, o perché c’è qualcosa di sbagliato in me”.

I cervelli di sopravvivenza costringono la neocorteccia a creare nella nostra immaginazione un’identità non scelta, ma dettata dalla sopravvivenza e dalle reazioni delle figure di attaccamento/accudimento; una Falsa Personalità, l’Ego appunto.
Un’identità che per buona parte è fondata sulla timorosa gestione della propria sicurezza e sopravvivenza diventa un’identità perennemente chiusa e separata dalla pienezza della vita, fino a diventare alienata.

Un’identità che non ricorda neppure il senso originario di appartenenza: non ha idea di chi veramente è; non ricorda di far parte del tutto; il suo convincersi di essere reale dipende obbligatoriamente da elementi esterni; esiste solo nel ricordo di altri che ne hanno diretto le valutazioni, le regole comportamentali e il senso di giusto o sbagliato; non si occupa di tornare alla dimensione naturale della interdipendenza.
Un’identità che si origina dalla paura di riprovare dolori e traumi è vincolata, a ogni suo pensarsi o agirsi, a ripetere gli effetti di dolore da cui si origina.
E non potrà comunque proteggerti da una cosa: dal non sentire il lamentio dell’anima che reclama in Te la sua origine di relazione col tutto.

Quindi, fino a che siamo completamente identificati con la nostra falsa immagine/personalità, siamo costretti a vivere in una condizione di dipendenza: guidati da un’idea di noi stessi che non abbiamo confezionato liberamente; un’idea che, dalla sua origine, si fonda su come è andata la obbligata interazione con gli altri nella prima infanzia, e non su di noi!

In conclusione: prendere coscienza che c’è realmente in noi qualche forma comportamentale a sfondo compulsivo, che ci spinge a ripetere azioni contrarie alla nostra integrità e benessere, rappresenta l’inizio del ritrovare il vero se stesso, e quindi l’inizio di una nuova e più felice possibilità di vita; oltre che la fine di una vita adattata a qualcosa di fissamente disfunzionale.

Decidere di affrontare la problematica da dipendenza che ti affligge significa darti finalmente la Tua risposta esistenziale, una risposta di consenso a Te stesso; vuol dire imparare a vivere libero, senza più l’ombra costante di pensieri che ti confermano l’esistenza solo in relazione agli altri, alla paura, a una qualche mancanza o a un presunto prossimo pericolo.


2. Il problema della dipendenza riguarda tutti.
Con la parola dipendenza definiamo il ripetere fissamente e compulsivamente pensieri, attitudini e azioni, di cui siamo consapevoli e che sembrano prometterci un immediato sollievo, e che in verità replicano un danno che già conosciamo e che puntualmente fingiamo di ignorare.”

Ricordando quanto espresso nella parte 1., riguardo alla personalità e al suo esistere come struttura dipendente a priori, possiamo affermare che problema della dipendenza è presente in qualche forma nel cervello e nei comportamenti di ogni essere umano. In un vasto range di manifestazioni: a partire da forme di dipendenza accettabili, che sfogano in quelle che consideriamo come abitudini malsane, da concedersi una volta ogni tanto, e sulle quali riusciamo a esercitare un qualche controllo; per finire in forme altamente auto lesive che, come sappiamo, possono condurre all’auto distruzione.

Siamo principalmente orientati a identificare la dipendenza solo nelle sue manifestazioni più estreme e visibilmente tossiche e distruttive, in cui l’oggetto da cui si dipende è una sostanza stupefacente, o l’alcool, e conseguentemente a ghettizzarle: “Loro sono tossico – dipendenti, io no!”
La cruda verità è che tutti in qualche modo manifestiamo attitudini e comportamenti da dipendenti: ogni forma di personalità è una struttura di dipendenza; la personalità è tossica, così come ogni forma di dipendenza è tossica a priori: lo è perché è distruttiva per l’integrità di chi la ripete, oltre che per la salute psichica e fisica.

Ciò che ci fa credere di non essere tossici è che solo le dipendenze da stupefacenti e alcool vengono considerate socialmente inaccettabili, mentre la maggior parte delle forme di dipendenza come quella da tabacco, da iper lavoro, dal denaro, dal sesso, dal cibo, dagli smartphone, dalle relazioni affettive, dal gioco d’azzardo, dai farmaci ecc… sono ritenute socialmente accettabili.

Non solo: molti dei prodotti preferiti dai compulsivo-dipendenti sono sponsorizzati dagli Stati che ci governano.
La piaga della dipendenza è un male sociale collettivo.

Il fare, il consumare, il comprare compulsivamente, il diventare amanti di uno smartphone e rimanere relazionalmente isolati sono reazioni da traumi da alienazione: purtroppo per gran parte della società sono diventate la condizione di vita acquisita come normale.

Ci siamo abituati a comunicare da dipendenti, sulle fondamenta della menzogna, del senso di colpa e del tradimento; pensiamo di scambiare nelle relazioni sociali mentre invece stiamo vendendo una buona e accettabile giustificazione al nostro segreto dipendere da qualcosa.

La buona notizia è che, così come la dipendenza riguarda tutti, anche il ritorno a uno stato di integrità e verità personale riguarda tutti.
L’altra buona notizia, che ci viene data dall’inizio di questa vita come un bonus vissuto, è che nasciamo integri e liberi di scegliere su quale fronte dirigerci: e che  possiamo riprenderci il bonus.

3. Come si creano le forme di dipendenza?
Ogni forma di dipendenza è il risultato dell’elaborazione fatta dal cervello limbico di un qualche trauma vissuto (con alte probabilità nella prima fase di infanzia):

con la parola trauma intendiamo l’intensità di come ci separiamo dalla percezione unitaria della nostra persona; separazione che accade nei momenti in cui subiamo un qualche evento che riteniamo pericoloso, interno o esterno a noi, senza riuscire a darci una risposta calmante e appagante.

 Quando veniamo colpiti da eventi intollerabili e ingiustificabili, per tutelare psiche, sistema nervoso e intelligenza sensibile la miglior strategia inconscia che il cervello Limbico può produrre è quella dell’alienazione.
Nei momenti in cui una creatura umana viene ferita interiormente, il compito nr. 1 del Limbico è: allontanare dalla coscienza l’impatto dell’evento negativo.
L’alienazione è una strategia che prevede una perdita di contatto dalla realtà vissuta: per poterlo fare siamo costretti a perdere contatto anche dalla percezione unitaria di noi stessi e dal proprio sentire di quel momento; dalla percezione fisica del corpo; e anche dal ricordo stesso di quanto accaduto.
Il trauma è nell’alienazione, non nell’evento che ci impatta: è appunto quel doloroso distacco dalla propria intelligenza sensibile e dall’integrità di individuo (dal latino individuus = indivisibile).
Nella dimensione alienata ho sempre la percezione di me come un individuo solo e separato dal resto; unicamente impegnato nella difesa o nel rifiuto di me stesso e del mondo esterno (per esempio con il giudicare, l’accusare, il lamentare, il mendicare o il negare).
La perdita di contatto viene compensata dal cervello limbico allucinando una soluzione falsamente positiva su quanto accaduto: come un film nel quale si inventa come giustificare e colmare quel vuoto intollerabile dovuto all’alienazione. Questa allucinazione è vincolata all’impatto negativo che la ha generata, che è un fattore proveniente dalla relazione con l’esterno; per cui la compensazione, per quanto ben artefatta, è legata fissamente a un qualche elemento esterno; solitamente l’ambiente che ci cresce e le figure di attaccamento e accudimento.
Il risultato di fondo di questo allucinare è: “Io esisto solo in funzione di qualcosa là fuori.”
Dal momento in cui è attuata e registrata, la strategia di alienazione verrà automaticamente replicata dal cervello limbico, ogni volta che riterrà che le situazioni di vita assomiglino al trauma vissuto: questa lettura distorta della realtà, come purtroppo sappiamo, può diventare cronica e di routine quotidiana.
Non potendo ovviamente la strategia di alienazione portare un reale benessere, rimane imploso e vivo nella sua ombra il desiderio di riarmonizzare quello stato separato e di ritrovare il ben-essere: sarà però di nuovo la stessa strategia a tradurre quel desiderio, interpretandolo sempre nella forma di un qualcosa di esterno a noi, come una sostanza, un oggetto, una persona o una situazione.
Si impara così a seguire la chimera che l’ottenimento di quell’oggetto esterno ci darà l’appagamento desiderato.
Vivendo l’esperienza che, a oggetto ottenuto e consumato, l’appagamento non si è realizzato, il  circuito cerebrale della strategia ripropone incessantemente il desiderio insoddisfatto.
Questa spinta a desiderare continuamente l’oggetto esterno, quasi come fosse l’unico salvagente disponibile nell’oceano, è l’ossessione che crea e governa ogni forma di dipendenza.

  1. Opening the Seed: ogni forma di dipendenza è tossica.
    Perché ogni forma di dipendenza, anche se non considerata tossica, produce effetti tossici per la salute e per la psiche e distruttivi per la persona?
    La ripetizione del pattern di alienazione di cui abbiamo precedentemente parlato, atteggiamenti compulsivi inclusi, è una sorta di certificazione di voler vivere in uno stato alienato e separato,
    che inviamo ininterrottamente al cervello e al corpo.
    Quando al comando del nostro agire c’è il cervello limbico, non hai discernimento: senza discernimento il cervello disimpara su come attivare l’intenzione, la motivazione e la volontà e si abitua a una dimensione innaturale di terrore rispetto al prendere decisioni. Ci si ritrova così a immaginare decisioni e soluzioni, ma non si riesce più a viverle veramente.
    Ogni forma di compensazione limbica esiste in una memoria di impossibilità, quindi in quella modalità reattiva non hai realmente la forza per fare quello che senti sano fare.
    In opposizione a questa condizione di fobia e impotenza del decidere, il sentire profondo dell’Intelligenza Sensibile che reclama il ben-essere non si estingue mai: si crea così una guerra interiore tra quello che senti di poter fare per uscire dal vincolo della compensazione limbica, e quindi dalla dipendenza, e quello che l’allucinazione limbica ti propone rigidamente di ripetere.
    Nella guerra interiore si è spezzati in due: separati dalla propria Intelligenza Sensibile si è condannati a soffrire.
    Lascio immaginare quali effetti tossici produca questo stato separato, sia nella relazione con se stessi che nelle relazioni con l’esterno. Riguardo gli effetti interni, consideriamo la psiche, il sistema nervoso e il corpo. Rispetto al corpo e al sistema nervoso, ci è necessario ricordare l’alto coefficiente di adattabilità agli stimoli ricevuti che lo caratterizza: il corpo può adattarsi quasi a tutto. Se per anni replico e alimento nel cervello un pattern di separazione, allora la materia del corpo si adeguerà a una condizione di anestesia rispetto al sentire e a un certo punto genererà separazione. Sì, il corpo può procedere nell’adattarsi all’alienazione fino al punto di andare contro la legge di unità e relazione che lo governa: può dividersi e andare contro natura.
    Le grandi malattie di questa epoca, come il cancro, l’Hiv, le malattie autoimmuni e degenerative, il Parkinson, l’Alzheimer, la bulimia o l’anoressia e altre ancora, sono patologie da scissione che ci mostrano come nell’organismo di una persona le cellule, originariamente programmate per un lavoro di cooperazione, si schierino come due eserciti nemici in guerra.
    Questo spiega perché la scienza medica non riesca a trovare soluzioni definitive per risolvere questo tipo di patologie fisiche.
    Rispetto alla psiche: nell’allucinazione di separazione il mostro alienato e ossessivo di compensazioni diventa paradossalmente il personaggio forte e sempre presente, quello con cui ci identifichiamo e che inconsciamente valorizziamo come se fosse la nostra vera identità; mentre l’unità originaria e integra della persona e del suo corpo diventano il personaggio da negare o addirittura da eliminare.
    Certo, non tutti i casi dipendenza, per quanto estremi, portano necessariamente a patologie corporee da scissione: lo stato separato ammala comunque la mente, la psiche e il sistema nervoso e impedisce il buon vivere. Il cervello è un laboratorio chimico che per funzionare nel discernimento deve avere un suo equilibrio ormonale: se per anni vivo in una con–fusione mentale/emozionale in cui esistono due mondi separati, educherò il cervello a eccessi di una qualche tipologia di ormoni e a deficienze di qualche altra tipologia ormonale.
    Se credo che non potrò mai rilassarmi nella mia dimensione di individuo, produrrò costantemente eccessi di adrenalina (l’ormone dell’emergenza “Fuggi, attacca, paralizzati: SALVATI!”); non produrrò sufficienti endorfine (l’ormone de “La vita è possibile! Fai parte della vita! Sentilo con piacere!”); non proverò piacere a esistere enon potrò mai rilassarmi in generale.
    Nella scarsità di endorfine non sarò nemmeno un buon produttore di dopamina (l’ormone “Posso partecipare, posso fare”) e avrò sempre difficoltà a intraprendere decisioni e azioni e a concludere le cose; non mi sentirò mai di appartenere a questa vita, perché nella scarsità dopaminica non produco sufficiente ossitocina (l’ormone del sorriso e della gioia, “Esistere è bellissimo!”) e sperimenterò grandi difficoltà a vivere e ad affermarmi serenamente.
    In questo set up cerebrale divento intossicato dalla divisione che io stesso alimento: quell’dea di me, con cui mi rispecchio ogni giorno, si confermerà distruttiva; il sistema immunitario verrà progressivamente indebolito; il senso di me demolito.


  2. Opening the Seed: l’Interdipendenza.
    L’interdipendenza, essendo ormai un argomento scientificamente provato dalla fisica quantistica come fondamento del Creato, dovrebbe essere la prima materia insegnata a scuola: spiegata, compresa e applicata con azioni che favoriscono risultati creativi, figli della co-creazione data in dote a ogni essere umano e a cui ognuno di noi è chiamato a partecipare.
    “Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza….” non significa che dovremo essere padri del mondo con la barba bianca e l’abito bianco: significa semplicemente che siamo l’unica creatura esistente su questo pianeta con la dote della co-creazione; grazie al potere del pensiero e con azioni coerenti al pensiero siamo in grado di modificare la realtà, di co-creare.
    Se osserviamo la natura come esempio principe di interdipendenza, assistiamo a un mutuo accordo universale di partecipazione da parte di tutti i singoli elementi: vi troviamo creature ed esserini preposti a creare, così come loro simili preposti a distruggere, e altri ancora a trasformare.
    Pur facendo l’uomo parte dello stesso sistema che include il mondo animale e vegetale, a differenza di un albero o di un lombrico (che sono programmati per fare solo l’albero e il lombrico) egli deve ricordare di essere un organismo interdipendente; che vive in un corpo fatto di miliardi di cellule intelligenti interdipendenti; soprattutto l’uomo deve accettare e scegliere di far parte di questo tessuto intelligente interdipendente che costituisce l’universo.
    Il problema rispetto all’istruzione pubblica (e conseguentemente all’istruzione sulla tematica della dipendenza) è che il fondamento dell’interdipendenza non è socialmente ammissibile.
    Il fondamento stesso dell’interdipendenza non prevede i paradigmi di giusto e sbagliato, di colpa e innocenza, di premio e punizione, di manipolazioni di potere, di individualismo estremo; che purtroppo sono i paradigmi sui quali è invece fondata la società in cui viviamo!
    Se, seguendo appunto l’esempio di interdipendenza che ci offre la natura, partiamo dal presupposto che non ci sono esseri umani giusti ed esseri umani sbagliati, ma solo diversi, allora occorrerebbe rivoluzionare l’educazione parentale, così come il sistema educativo scolastico: questo, paradossalmente impostato su dogmi di arrivismo, competizione e selezione, tende ancora a ghettizzare i ragazzi che non si adattano a un ambiente contrario alla loro stessa natura, con conseguenze assolutamente traumatiche.
    Così come la scuola, anche le strutture ospedaliere e di cura della salute sono diventate realtà contrarie alla interdipendenza: se hai un problema respiratorio c’è il pneumologo; il quale, per formazione certificata, non deve occuparsi del tuo intestino perché lui sa dei polmoni; non importa se, come da millenni ben spiegato dall’ayurveda o dalla medicina cinese, intestino e polmone siano costituiti dallo stesso tessuto cellulare e siano in piena sinergia l’uno con l’altro.
    Un approccio di recupero efficace alle tossico dipendenze fondato sul paradigma dell’interdipendenza non si focalizza sulla sostanza tossica come il nemico pubblico nr. 1 da sconfiggere: si focalizza olisticamente sulla relazione interna nell’individuo tra aspetti psichici, fisici, relazionali, comportamentali e stati interiori.
    L’approccio interdipendente non condanna l’uso della sostanza ma si occupa dei comportamenti di partecipazione alla sostanza, quelli attivati prima di arrivare a usarla. La sostanza è solo l’ultimo anello di una catena di reazioni interiori: non si guarisce sezionando, imponendo o pensando che sia sufficiente togliere la sostanza, ma smontando il tessuto interiore e cerebrale di reazioni che ne governa l’uso compulsivo e ricollocando i pezzi nel giusto ordine.
  • Opening the Seed: perché non si educa riguardo alla dipendenza?
    Dal mio personalissimo punto di vista la società dovrebbe istruire pubblicamente tutti i bambini sui fondamenti della relazione. Non solo: trovo assolutamente ridicolo e inutile continuare negli istituti pubblici a parlare di dipendenza solo in riferimento alle sue manifestazioni visibilmente tossiche, come stupefacenti e alcool, fondando la presunta educazione sui paradigmi del giusto/sbagliato, del premio/punizione e del ghettizzare. “Cari studenti, non è importante se vostro padre è tossico dipendente dal lavoro e dal tabacco e si è dimenticato di voi; non è importante se vostra madre è tossica dipendente dal giudizio pubblico e vi ha inamidato come manichini; non è importante quale effetto di alienazione si sia prodotto in voi. Ma mi raccomando: non provate mai a farvi una canna! E ora vi spiego il perché!”
    Il tutto rivolgendosi a una platea nella quale almeno il 50% dei ragazzi si è già dichiaratamente schierato a favore dell’alienazione e magari, mentre ascolta il sermone, smanetta con lo smartphone o sogna di poter uscire a fumare……
    In questa massa di giovani anime alienate tanti verranno processati per i loro comportamenti, perché ritenuti sbagliati e non compatibili con il sistema; alcuni verranno diagnosticati malati sul piano comportamentale e attitudinale, e trattati con psicofarmaci.
    Vogliamo parlare del crescente fenomeno dell’apatia e della depressione tra le nuove generazioni di adolescenti? Vogliamo aprire gli occhi sulle migliaia di diagnosi psichiatriche che pesano come lapidi sul futuro dei ragazzi “sbagliati”? E sui quintali di psicofarmaci con cui vengono “curati”? Perché non si parla invece di come i Governi siano i primi sostenitori della condizione dipendente delle masse? Cosa possono insegnare sulla dipendenza gli stessi Governi che condannano le piante medico/ricreative e contemporaneamente vendono con profitti enormi tabacco, alcool, psicofarmaci e slot machine? Chi si occupa di disintossicare i milioni di persone resi legalmente tossico dipendenti? Li ripuliamo con farmaci che creano a loro volta dipendenza? Educheremmo così a divenire buoni clienti di farmaci. Pensiamo a come le aziende multinazionali siano ben istruite in materia e come le strategie di Marketing applicate siano carburante dichiarato per alimentare compulsività.
    Proviamo per un istante a pensare: di cosa ha bisogno primariamente un individuo alienato? Di sermoni sui mostri delle droghe? O forse, prima di ogni altra cosa, di un contatto umano autentico, di un potersi rispecchiare nella sua fragilità, umanità e interiorità senza temere giudizio?
    Perché uno Stato non si occupa di questi aspetti umani rispetto alla piaga delle dipendenze?
    Il problema principale è che non si può pensare di recuperare persone affette in modo grave da dipendenze proponendo programmi schematici uguali per tutti: ogni tossico dipendente porta certamente in sé il chip dell’alienazione, ma il modo in cui lo ha costruito nel cervello è unico e dovuto a cause uniche.
    Per poter essere efficienti, sia l’educazione sulla dipendenza che i programmi di recupero devono essere progettati per un utilizzo plasmato su misura sul soggetto: il tossico dipendente deve essere considerato e curato come individuo. Deve essere favorito al recupero della sua neuro-plasticità ed educato a rimodellarsi a suo favore.
    Purtroppo sembra che, per gli stessi Governi che continuano a vendere dipendenza con lucrosi guadagni, occuparsi dei danni umani da loro causati sia una mission impossibile e troppo costosa.
  • Opening the Seed: quali metodi per trasformare la piaga della dipendenza?
    La dura realtà e che non siamo preparati ad accogliere l’onda d’urto che le innumerevoli nuove forme di dipendenza, ben nascoste e accettate dal tessuto sociale (come a esempio l’alienazione da smartphone) stanno per causare in tempi vicini sulla società.
    Non eravamo pronti neppure dopo le rivoluzioni degli anni ‘60/’70: non eravamo pronti all’eroina, alla cocaina, all’alcool, al tabacco, alla televisione.
    Non siamo mai stati pronti perché non ci si è mai occupati di fare formazione pubblica di stampo umanistico, su chi siamo e su come funzioniamo.
    Il miglior prodotto terapeutico che i Governi hanno saputo offrire alle masse tossico dipendenti sono state le Comunità, rivolte ovviamente solo alle casistiche di dipendenza ghettizzate: in Italia hanno cominciato ad apparire in modo più pubblico negli anni ’70, per le ovvie necessità di cui abbiamo accennato. In circa quarant’anni di operatività le statistiche ci dicono che, considerando casi recuperati in comunità e un periodo minimo di non tossicità dai 5 ai 10 anni dopo la dimissione dalla comunità, le percentuali di successi oscillano tra l’1 e il 2%.
    In altre parole un grande fallimento confermato nel tempo.
    Perché le modalità di recupero attuate non funzionano? E, di nuovo, perché non se ne parla?
    La categoria dei tossicodipendenti è quella meno considerata dallo Stato: la quota economica giornaliera di supporto che lo Stato italiano elargisce alle comunità corrisponde a meno della metà di quella elargita per l’accoglienza degli psichiatrici. Questo impedisce alle comunità stesse di fare ricerca, sperimentazione e di pagare il personale che sarebbe necessario.
    I programmi di recupero sono impostati prevalentemente sui fondamenti di privazione, disciplina, senso delle regole e partecipazione/relazione al collettivo: questi fondamenti possono risultare buoni ed efficaci solo se sono associati a valori interni dei singoli soggetti; per poter praticare questa associazione servirebbe un lavoro individuale su ogni soggetto, il che non è sostenibile per quanto detto precedentemente.
    La maggior parte dei consumatori dipendenti di stupefacenti vive una profonda alienazione dal sistema sociale, che si costituisce appunto sugli stessi fondamenti dei programmi di recupero: se non si riesce a trasmettere a ogni soggetto in cura un senso profondo rispetto a quei fondamenti, questi potranno a un certo punto essere interpretati come una nuova prigione da cui alienarsi.
    Se non ho in me un valore sentito rispetto su dogmi di fermezza e privazione, il cervello limbico che governa il pattern comportamentale del dipendente si schiererà contro i dogmi.
    Il cervello che tutela la sopravvivenza e la territorialità psichico/emotiva è più forte della volontà: vince lui.
    Inoltre, su quale motivazione viene fondato questo tentativo di recupero? La motivazione di rientrare nel mondo che si è in precedenza rifiutato? Per fare che cosa? Per quale motivo? Sono motivazioni sentite dal paziente o imposte come giuste convenzioni di guarigione?
    Volontà e la disciplina diventano strumenti potenti per liberarsi dalla dipendenza solo quando vengono cerebralmente ed esperienzialmente linkate a riferimenti interni riconosciuti dal soggetto: riferimenti che risultino piacevoli, che aiutino a nutrire una nuova versione dell’identità e che permettano al cervello di riattivare la neuro-plasticità e creare nuove mappe neuronali.
    L’esperienza di anni di intenso lavoro, svolto nei processi di recupero dalle tossicodipendenze, mi insegna che posso parlare a un tossico dipendente di disciplina e privazione solo se al tempo stesso gli garantisco un alto dosaggio di calore umano; relazioni scevre di condanna e giudizio; una percezione di amore integra che includa il riconoscimento dell’autorità e la tolleranza della rigidità, quando necessaria; un profondo lavoro di riconnessione al corpo e alla percezione di sé; un aiuto a liberare emozioni e a riprendere ad ascoltarsi; ; creare l’interesse di riscoprirsi come persona; lavorare sugli elementi creativi e i talenti; ridare valore a cosa gli piace fare e a cosa lo fa sorridere.

  • Opening the Seed: dalla dipendenza all’Interdipendenza.
    Nella mia visione ed esperienza diretta sul recupero di soggetti tossico dipendenti, mi sento di affermare che l’unica via produttiva è quella del ritorno consapevole al senso innato di interdipendenza.
    Ammetto che non sia un’operazione semplice, né indolore. Ci vogliono molto coraggio, forza e determinazione per un tossico dipendente per decidere di intraprendere un percorso di recupero: uscire dalla dipendenza è un rifacimento d’abito, di identità, e fa paura; paradossalmente è più spaventoso ricostruirsi un’identità che procedere con quella conosciuta, seppur chiaramente distruttiva.
    Mi è capitato più volte di dire a un soggetto tossicodipendente: “La droga ti ha salvato la vita.”
    Continuerò a dirlo perché è vero. La maggior parte dei soggetti tossico dipendenti porta in sé traumi intollerabili, a causa dei quali si sarebbero suicidati o sarebbero letteralmente impazziti senza gli ausili di rilassamento artificiale delle droghe. Quindi per me un tossico dipendente vivo non è un errore ma una possibilità: se la vita permette a un suo figlio di percorrere il tragitto della dipendenza, forse è perché la vita sa cosa fa; essa tende sempre e comunque a creare, quindi da qualche parte nel tunnel sconquassato della dipendenza ci sono le energie per creare una nuova realtà, partendo dalle vecchie macerie.
    Nell’approccio fondato sull’interdipendenza la storia della tossicità è una risorsa e non una macchia di peccato. Il riprendere una confidenza percettiva con la propria origine di creature interdipendenti con il tutto, figli e figlie dello stesso Dio, si nutre scoprendo che in ogni parte di noi, anche la più devastata, e in ogni azione che facciamo c’è l’Intelligenza Universale al lavoro.
    La vita si fonda anche sulla legge del Paradosso, per cui anche la strada apparentemente più sbagliata tende verso la stessa meta: l’evoluzione di chi la percorre.
    Perché il tossico dovrebbe essere più sbagliato di chi divorzia, di chi abbandona, di chi specula, di chi tradisce, di chi mente o di chi fallisce economicamente?
    Ciò che è stato negato e che ha prodotto traumi indelebili può essere rigenerato.
    Contatto, relazione, onestà, partecipazione: sono forse elementi riservati a qualche èlite con la fedina social-morale immacolata?
    Noi ci  dedichiamo a dare un valore supremo a questi elementi: sappiamo che non sarà possibile evitare in futuro il generarsi di nuove forme di dipendenza; col cuore ci impegniamo a far sì invece che tanti abbiamo imparato come rispondere all’evento dipendenza.

Abheeru R. Berruti